La felicità in un sacco di fagioli

Un pezzo di storia bahiana che abbiamo vissuto.

Delle tante frasi sentite in Brasile, quella pronunciata in una baracca di telo nero nell’accampamento Belavista dei Sem Terra a Itamaraju mi è rimasta particolarmente impressa: «Continuo a sorridere perché, per la prima volta nella vita, ho un sacco di fagioli tutto mio».

«Per via delle ambulanze che avete consegnato alla città, ieri è venuta nell’accampamento la televisione della Bahia, ci disse quel lavoratore. Sono cresciuto nelle favelas, ora sto con i Sem Terra, ero tanto emozionato che non riuscivo a rispondere alle domande, un nodo alla gola impediva alle mie parole di uscire, ma sono riuscito comunque a mostrare a quelli della televisione il sacco che ho qui con me. Ora, che c’è frei Dilson a farmi coraggio, mi è tornata la voce e rispondo alla vostra domanda, la stessa che mi hanno fatto ieri: perché continuo a sorridere? Perché, per la prima volta nella vita, ho un sacco di fagioli tutto mio». Attorniato dalla moglie e dai bambini, aprì il sacco e si riempì le mani di fagioli che fece scivolare tra le dita.

Era la fine del ventesimo secolo, una frazione a quaranta chilometri dalla città di Itamaraju nel sud della Bahia brasiliana, una baracca costruita – come le altre attorno – con legni, fango e il caratteristico telo nero degli accampamenti dei Sem Terra, come a quei tempi se ne vedevano tanti ai bordi delle strade (e qualcuno anche oggi). Eravamo nell’assentamento Belavista, che cinque anni prima era stato attaccato e bruciato, insieme ai campi coltivati e ai raccolti, dai pistoleros al soldo dei fazenderos latifondisti, affiancati dalla polizia. Anche frei Dilson, frate cappuccino giunto in soccorso degli occupanti, era stato picchiato: ricordo che quella sera ci aveva telefonato qui in Italia per chiedere un aiuto economico urgente per curare le decine di feriti che aveva accolto in convento e sé stesso. Poi, dopo la sua elezione a sindaco della città, i Sem Terra avevano voluto invadere di nuovo in suo onore quel pezzo di terra da cui erano stati cacciati e ricostruire l’accampamento: in esso vivevano 3-400 famiglie, più di 2.000 persone che l’MST aveva convinto a lasciare le favelas delle grandi città per andare ad occupare quella terra incolta, dissodarla, coltivarla e raccogliere i primi fagioli.

L’anno successivo, nello stesso assentamento costruimmo un centro scolastico, dalle elementari alle superiori, con l’aiuto dei Comuni trentini, Provincia e Regione, ancora oggi funzionante con oltre 300 alunni provenienti da tutta l’area. «Qui sono nato e cresciuto, diceva frei Dilson, ho coltivato la fede che mi ha fatto vincere ogni paura e sopportare ogni violenza fisica e morale. Ho deciso di lottare per i poveri e per la giustizia sociale con il saio del frate, la fascia di sindaco, le bandiere del PT e dei Sem Terra. Il Brasile ha svenduto le proprie ricchezze alle potenze straniere, alle multinazionali, una politica economica che ha portato alla fame e alla miseria milioni di persone, anche chi prima riusciva bene o male a sopravvivere. La terra è in mano ai latifondisti che invece di coltivarla la considerano un salvadanaio dove mettere i loro soldi. È per questo che il Movimento dei Sem Terra, l’MST, individua dei piccoli appezzamenti di enormi proprietà terriere incolte, li invade con centinaia, a volte migliaia di famiglie povere che poi, con il passaggio da accampamento ad assentamento, diventano legittime proprietarie della terra invasa per legge dello Stato. Ma è proprio prima del passaggio che i fazenderos fanno di tutto per far intervenire pistoleros e polizia e cacciare i nuovi arrivati».

Nella baracca lì accanto una donna, con il figlio di una decina d’anni, mostrava il carattere e la forza di quella gente: «Con la mia famiglia abbiamo lasciato la città dove facevamo la fame e siamo arrivati qui l’anno scorso. In questa baracca all’inizio eravamo in quattro: con noi due c’erano anche mio marito e mia figlia. Durante l’inverno due sono morti, sono rimasta sola con mio figlio. Ma non ci muoveremo di qua finché non ci assegneranno il nostro pezzo di terra».

Il Brasile da allora, più di 25 anni fa, è in parte cambiato con la presidenza di Lula, capo del Partido dos Trabalhadores (PT) e punto di riferimento della sinistra brasiliana e dell’intera America latina, speranza del Nord-Est povero, dei lavoratori, dei Sem Terra, dei Sem Casa, della gente delle favelas, del ceto medio aperto al sociale e al progresso, della Chiesa dei poveri che si riconosce nella Teologia della liberazione, di chi lo ha votato. Sono 30 milioni, secondo Ocse, i brasiliani usciti dalla povertà grazie alle iniziative economiche e sociali promosse fra il 2003 e il 2016 da Lula e Dilma Rousseff: progetti Fome Zero, Bolsa Familia (piccolo stipendio alle famiglie per ogni bambino vaccinato che frequenta la scuola), Casa para todos, Luz para todos, Mais Medicos (dieci mila medici cubani assunti dal Governo brasiliano per lavorare in tutti i paesi dell’interno che non avevano mai visto un medico) e tante altre iniziative che Bolsonaro ha fatto di tutto poi per cancellare. Ma con il ritorno di Lula il Brasile poco alla volta sta riemergendo anche nella credibilità internazionale. I problemi, tuttavia, non sono risolti, anzi: c’è ancora chi cerca la felicità in un sacco di fagioli.

Torbole s/G, 27 gennaio 2025                                                                                         Giuseppe Parolari

                                                                 Accampamento dei “Sem Terra”

 

 

                                                                  Scuola dei “Sem Terra”